Visti da vicino: Mario Macrì, biker solidale

La vita è qualcosa d’altro…

Mario Macrì - UshuaiaUn lavoro tranquillo quello di Mario Macrì, cassiere nel rinomato Gran Caffè Urna di Viagrande. Forse troppo. Da qui la voglia di spostare i limiti. Alla ricerca di qualcosa che Gli dia più stimoli, qualcosa che non può trovare stando seduto, ore ed ore, alla Sua postazione di lavoro. Ormai… da ben 21 anni. Qualcosa che Gli dica di più di sé e degli altri. E così la spinta forte a macinare chilometri su chilometri da biker, novello viaggiatore dei nostri tempi. Incontro Mario proprio alla fine del Suo turno di lavoro. Una chiacchierata di mezz’ora, prometto. E come sempre, anzi più delle altre volte, diventa una lunga seduta di psicanalisi con un paziente, stavolta, che non fa resistenze e racconta… racconta… Come se racconta!

D. Mario sappiamo che nasci in Sicilia, nel 1963, per precisa volontà paterna. Il lavoro di Tuo padre, Carabiniere in Aspromonte, avrebbe suggerito altro luogo natio…

R. Vero. Mio padre voleva che il Suo primo figlio nascesse proprio a Catania. Non poteva permettere che, come un nomade, nascesse in una terra diversa da quella dei Suoi avi. Ma si trattò di una breve parentesi. Giusto il tempo di vedere la luce e via…

D. Nei successivi 2 anni e mezzo vivi proprio a Molochio, nel selvaggio Aspromonte, e lì sperimenti la Tua prima “fuga” verso l’avventura, leit motiv della Tua vita. Vuoi raccontarci quell’episodio che, poi, dà la cifra del Tuo modo d’essere sin da piccolo?

R. Molochio è un paesino di non più di 1000 abitanti, non più grande del Borgo Viscalori di Viagrande. Si trova in mezzo ai boschi, in alto. Si sale… si sale e, poi, solo uliveti. Lì, sì, ho sperimentato la mia prima “fuga” con l’incoscienza dell’infanzia. Un giorno, saltata la raccolta delle olive per il cattivo tempo, senza perdermi d’animo e mentre i miei dormivano, guadagnai la porta di casa, presi l’ombrello e partii alla volta dell’uliveto. Ricordo ancora la sensazione provata nel percorrere quei 700 metri di boscaglia fino a quando fui “beccato”, fortunatamente dico oggi, da un tale incuriosito di vedere un ombrello fantasma girovagare tra i boschi. Ricordo il richiamo che già allora sentivo forte per la natura, il desiderio di vivere al di fuori del cemento delle città e di condurre una vita a contatto con gli elementi. Lavorare i campi… questo era il mio sogno!

D. Cosa Te l’ha impedito?

R. La vita… stessa. Ti ritrovi, per caso o necessità, a fare altro.

D. Dai 3 anni e mezzo e fino al 1970 il salto dalla piccola comunità di Molochio alla grande città, Reggio Calabria dove Ti ritrovi a vivere i cosiddetti “Moti di Reggio“, una sorta di guerra civile che vide contrapposte Reggio e Catanzaro per l’attribuzione della qualifica di capoluogo di regione. Di quel periodo, fatto di lacrimogeni… di molotov… cosa ricordi? Tanto più che lo vivevi da bambino?

R. Un periodo ben impresso nella mia mente. I reggini, all’idea che il capoluogo di regione potesse essere spostato, diedero vita ad una vera e propria sommossa popolare guidata dalla Destra e si scagliarono sul Governo, reo di voler portare avanti ‘sta cosa. Furono anni terribili. Tra l’altro, mio padre, essendo tutore dell’Ordine, era costretto ad uscire da casa in borghese con la divisa dentro lo zaino e, in bici, superare le tante barricate disseminate lunga la strada da casa in caserma. Ricordo giornate trascorse, io e mia sorella più piccola, chiusi nella nostra stanza, sotto il letto e con le finestre chiuse. Abbiamo vissuto quei giorni come fossimo in guerra. I Moti si conclusero, dopo un anno, con l’invio dei carrarmati.

D. Eppure noto nostalgia nel Tuo sguardo…

R. L’affetto per le persone e l’attaccamento per i luoghi, quello è rimasto intatto. Mi capita spesso di traghettare con la moto e di raggiungere quei luoghi, anche solo per acquistare del peperoncino e tornare indietro. E’ un ritrovarmi anche attraverso i sapori… gli odori.

D. La Tua infanzia ha il sapore di…?

R. Di olio, non c’è dubbio. E’ il legame con la gente, però, quello che mi è rimasto addosso e che ho ritrovato, adulto, oltre che in Sicilia anche in SudAmerica. Non in tutti i sud del mondo che, eppure, ho visitato. In Sud America, sì… Lì hai l’impressione di ritrovare la nostra terra cristallizzata… la nostra terra di 30 anni fa, insomma. Certi valori persistono. Si creano legami duri a morire, legami che nascono semplicemente… da un gesto, da una parola. Fantastico! Legami che nascono dal cuore e lì restano per sempre. Credo sia una particolarità delle piccole/medie comunità. Non la si ritrova nelle metropoli.

D. Dopo il 1970, la Tua famiglia si trasferisce nella più tranquilla Modica e lì rimane fino al 1980… il periodo più felice della Tua vita. Il passaggio dall’infanzia alla gioventù. Dagli 8 ai 18 anni. Vuoi dividere con noi qualche ricordo, di quel periodo, Mario?

R. Periodo bellissimo, quello. In una cittadina a misura d’uomo. L’esplosione della giovinezza, la stagione della vita in cui si formano gli ideali e cominci a discernere la cosa giusta da fare da quella sbagliata. E Ti indirizzi. Io, già allora, mi sentivo attratto dagli altri soprattutto dai più deboli. Già a scuola, a Modica, cittadina lontana dal frastuono della vicina Ragusa, i ragazzi si dividevano tra quelli che scendevano a fare “vetrina“, le famose “vasche“, al Corso Umberto a mostrare i propri abiti firmati e quelli che, come me invece, preferivano fare altro e farlo… in jeans e maglione. E lì già mi venne appiccicata la prima etichetta. E a quell’età che scegli l’indirizzo della Tua vita. Dove vuoi orientarTi. Lì ebbe inizio il mio impegno sociale verso i bisognosi e verso coloro che vivono ai margini della società. Questa mia predisposizione preoccupò mio padre che, come tutti i padri del mondo, avrebbe voluto che frequentassi altra gente, altri ambienti. Da lì una serie di incomprensioni che si sono trascinate per anni e poi ricompostesi nella maturità, mia e Sua… in un certo senso.

D. Quanto è rimasto di quel Mario?

R. Tantissimo. Sono lo stesso. Oggi ho solo la possibilità di fare quello che voglio senza dover chiedere il permesso. Magari l’approvazione di mio padre… quella mi piace ancora sentirla addosso. In questo sono rimasto “figlio“. Anche se non sono diventato avvocato o magistrato, come avrebbe voluto mio padre, so che Lui adesso mi approva. D’altra parte per me il lavoro è solo un mezzo di sostentamento, quello che mi permette di dedicarmi alle cose che amo. Nient’altro.

D. Tutte le vicissitudini della vita, cosa Ti hanno insegnato e cosa, di contro, Ti hanno tolto?

R. Solo la possibilità di potermi impegnare, in maniera costruttiva, in quello che amavo e di farlo a tempo pieno. Torno a dire, per me il lavoro è sempre stato un mezzo. Penso che la vita sia ben altro che fare il cassiere da Urna…

Questa affermazione mi riporta alla mente la bella chiacchierata avuta lo scorso anno con Peppino Perrotta, manager di livello internazionale. Anche Lui mi disse che la vita era ben altro rispetto al Suo vissuto. Mi ritrovo a pensare che l’Uomo, per natura, cerca sempre di sondare l’insondabile. E’ questa la sensazione di incompletezza che lo rende l’essere vivente più complesso ed affascinante del Creato. Due diversi percorsi, due vissuti agli antipodi… medesima riflessione.

D. Mario, quando sei riuscito ad elaborare il rapporto con Tuo padre? Quando sei diventato… Uomo a Tua volta?

R. Paradossalmente, quando Lui è sceso a patti con me. Quando anche Lui mi ha cercato nella mia dimensione, nel sociale. Come saprai, è stato uno dei promotori della Croce Rossa Italiana a Viagrande. Tutto ciò è avvenuto con il Suo ritiro a vita privata. Con il raggiungimento della pensione.

D. Tornando al Tuo lavoro, non Ti sembra di svuotarlo di significato? Lo definisci solo un mezzo eppure… più che un semplice cassiere… Tu sei una sorta di confessore. E lo fai da oltre 20 anni, giusto? Qualche personaggio che Ti è rimasto nel cuore, Mario…

R. Tantissimi. Uno in particolare, Paolo… il pittore. Era un paziente ricoverato presso la Clinica di Igiene Mentale di Aci S. Antonio. Ogni sera, puntuale come un orologio svizzero, saliva fin qui. Era stato un musicista. Non mi parlò mai, diciamo, in maniera intellegibile. Lo faceva attraverso le poesie. Era un ottimo ritrattista e poteva trascorrere anche 3 ore dipingendo i contorni del viso di una persona. Con una cura maniacale. Poi, improvvisamente, tracciava i tratti del viso. Chissà perchè? Forse era un modo per invitare la gente a fermarsi, a non avere premura. Un giorno Lo trovarono sdraiato per strada… morto. Ma, in 20 anni, sono tanti altri i personaggi che ho conosciuto e con cui, in un ideale do ut des, ci siamo scambiati sensazioni.

Mentre Mario parla non posso fare a meno di pensare che quegli ambienti che ci ospitano sono stati teatro della Storia, la nostra storia. Il Gran Caffè Urna, locale storico d’Italia, nasce nel 1885… un posto magico, ricco di un bagaglio culturale non indifferente. Storia, tradizione e cultura trovano qui il loro perfetto amalgama. Lo stesso che ha reso celebre lo “Schiumone della casa”!

D. Mario, dopo la parentesi modicana, il trasferimento dalle nostre parti…

R. Un periodo terribile quello del trasferimento, avvenuto a cavallo tra il penultimo e l’ultimo anno di scuola superiore. Lo ricordo come uno “strappo” feroce. Venivo preso per i capelli che… allora c’erano (e ride Mario, con la Sua risata sonora e franca, accarezzandosi la curatissima pelata!) , sradicato dalla mia vita… dagli amici e dall’amore… e catapultato in una realtà diversa e frenetica. Forse è in quel periodo che si è acuita la mia avversione verso i grossi centri…

D. Il richiamo verso il Tuo luogo dell’anima di allora, Modica per l’appunto, Ti spinse al Tuo primo viaggio in moto, in sella ad un Gilera Cross 50. Viaggio affrontato con lo stesso spirito con cui affronti oggi viaggi di ben altra portata. Fu quello il Tuo battesimo da biker, no?

R. Si, è vero. Lo affrontai con la consapevolezza che l’inghippo può verificarsi, in qualsiasi momento, ma che tutto può essere risolto man mano che succede. Così come accaduto, molto tempo, dopo in Perù. Male che vada… si va a piedi o si trovano altri mezzi di locomozione. La mia non è incoscienza… sento la paura e, pertanto, non sono incosciente. Vedi, io cerco le soluzioni ai problemi man mano che si presentano…

D. Mario, scorrendo le Tue note biografiche, scopro che dopo la parentesi del servizio militare cominci a lavorare e fino al 2001… non hai mai più avuto alcun’altra moto. In compenso 2 mogli… 3 figli (Enrico, il grande; l’adolescente Giorgio e la piccola Lucia)

R. Si, oggi sono felicemente sposato con Daniela. Da oltre 20 anni. Con Lei condivido la passione per la moto ed i viaggi. In quest’ultimo non mi accompagnerà ma solo perchè abbiamo i piccoli da accudire, ancora in casa.

D. E siamo al 2001. Parcheggiata l’automobile… riesplode la passione per le moto. Giusto il tempo di riprendere confidenza con una BMW F 650…

R. Si. Nel frattempo mi ero dedicato ai fuoristrada. Il primo fu un Land Rover di seconda mano, acquistato vendendo la Uno regalatami, nuova, da mio padre. Fu un ulteriore motivo di attrito tra noi due ricompostosi la prima volta che Lui, esperto fungaiolo, me lo chiese in prestito per andare in una zona impervia alla ricerca proprio di funghi. Ricordo perfettamente la notte che mi svegliò chiedendomi in prestito le chiavi “do’ tratturi“. Fui felice di prestarglielo. Da allora il fuoristrada è il Suo unico mezzo di locomozione. Molto spesso da ragazzo, nel giorno libero dagli impegni lavorativi, andavo da solo per i posti più difficili da percorrere…

D. Andare da solo… cosa Ti ha permesso?

R. Di prendere coraggio. Di guadagnare sempre più fiducia in me stesso.

D. Nel 2005, la prima moto adatta a realizzare i Tuoi sogni di biker giramondo, una BMW R 1100 GS ABS e raggiungi, con Tua moglie Daniela, la parte più estrema d’Europa, Capo Nord in Norvegia e due anni dopo Ti ritroviamo in Sud America, sulle Ande.

R. Esatto. Proprio in quest’ultimo viaggio fui costretto a lasciare lì la moto, però, sotto il Machu Picchu perchè, a causa della benzina di scarsa qualità… delle repentine salite ad alta quota da 0 a 5200 metri… della mancanza di ossigeno… la carburazione sballò con danni irreversibili. La vendetti al Comandante dell’Esercito di Cuzco che l’acquistò come pezzo da… museo.

D. Mario, tante peripezie ma… cos’è questo voler spostare i limiti?

R. No, non è questo! A me interessa solo vedere, e non turisticamente, come vive altra gente. Voglio assaggiare quello che mangiano… imparare a parlare come Loro… I miei non sono viaggi off limits… sono viaggi conoscitivi. Tutto qui. Con un risvolto sociale e culturale che “incontro” nel 2007 quando il mio cammino si incrocia con quello di Motoforpeace. Essendo stato a Capo Nord, la mia fissazione era quella di raggiungere Capo Horn ridiscendendo l’America e percorrendo tutta la PanAmericana. A Capo Nord c’ero stato ma non riuscivo a traghettare dalla Norvegia fino agli Stati Uniti o al Canada e cominciai a guardarmi in giro. Scoprii Motoforpeace, un gruppo di poliziotti provenienti da ogni parte del mondo. Cercavano qualche “folle” che si unisse a Loro. Fu amore a prima vista. Con la spedizione che seguì il nostro incontro, portammo ben 35.000 euro a Los Ninos de la calle e ben 5.000 euro ai terremotati del Perù.

D. Un messaggio di pace e solidarietà attraverso Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù… Un modo di “esserci” e di portare solidarietà, il Tuo. Come viene accolto un biker? E’ un personaggio amato?

R. Viene accolto con entusiasmo. Non è il classico turista. Sceglie di “esserci” come dicevi Tu e di farlo concretamente… La gente lo capisce.

D. C’è qualcosa che Ti spaventa di questi viaggi?

R. Il fatto di ritornare senza aver “ricevuto” niente. Di dover tornare senza il cuore pieno di qualcosa… un sorriso… una parola. In mancanza di questo, sarebbe un viaggio perso. Ed è per questo che programmo dove andare, che tipo di popoli incontrare… io non sono un turista!

D. Raccontavi dei viaggi con Tua moglie. Cosa hanno aggiunto al Vostro rapporto?

R. Ci hanno uniti ancora più profondamente, se possibile. Sai, vivere certe esperienze e poterle raccontare, trasferire ad altri sensazioni vissute in due… crea un legame indissolubile.

D. Curiosità… tecniche, Mario. Qual’è l’equipaggiamento tipo di un biker giramondo?

R. Quello di protezione. Contro le intemperie. Contro le cadute. Lo spazio in moto è davvero poco. Il cibo Te lo procuri in loco e può capitare di trovarsi a mangiare la “formica culonas”, altamente proteica. Anche attraverso il cibo si conoscono meglio le popolazioni che vai a conoscere.

D. Dalla Tua prima esperienza con Motoforpeace è stato un susseguirsi di imprese. Nel marzo del 2009, ad esempio, Ti ritroviamo a percorrere il famoso Cammino di Santiago, 6500 chilometri sui Pirenei fino a Cabo Finisterre sull’Atlantico.

R. Questo viaggio effettivamente avrei potuto concluderlo, in moto, in soli 4 giorni essendo il Cammino, in senso stretto, di circa 800 chilometri. Io l’ho voluto allungare anche per incontrare i pellegrini che sono tantissimi, per la verità. Io ho costeggiato il percorso e ciò con l’intento di incontrarLi e sorreggerLi in questo Loro modo di far penitenza, di espiare. Che poi è il senso del Cammino. Io l’ho fatto in moto sia perchè sono un biker sia per problemi di salute (Mario, non volendo smentirsi, non si è fatto proprio mancare nulla e, qualche anno addietro, è stato colpito da un infarto che ha, comunque, superato brillantemente). Sono stato per Loro una sorta di Cavaliere Templare.

D. Mario, anche in questa occasione, presumo Tu abbia incontrato personaggi che Ti sono rimasti nel cuore…

R. Come no! Ricordo un monaco rasta che, dapprima, avevo scambiato per un ragazzino. Era la settima volta che s’incamminava sul quel sentiero ed ogni volta, mi raccontò, trovava qualcosa di più e di… diverso.

D. E Tu cosa hai trovato?

R. La mia era una “mission” tutta personale, privata. Non voglio parlarne. Forse un giorno la racconterò. Magari in un libro.

Mario si commuove ed avverto di aver toccato, senza volere, le note più profonde del Suo animo. Mi ritiro in buon ordine lasciando al mio interlocutore il tempo di riprendersi. Poi torno alla carica…

D. Mario ma perchè senti così tanto il bisogno di aiutare gli altri? Non Ti sei sentito abbastanza amato nella vita? E’ questo?

R. So dove vuoi arrivare, carogna!…

Mentre lo dice, sorride.

R. …diciamo che mi sento gratificato ad aiutare più che ad essere… aiutato!

La Sua risposta non mi convince granchè ed incalzo… da carogna, quale sono!

D. L’altruismo, si dice, sia lo sbocco della solitudine…

Capisco che sto esagerando e non insisto. Ci saranno altri tempi e modi con cui il mio amico Mario vorrà raccontare e… raccontarsi.

D. Mario, ci avviamo alla fine della nostra lunga chiacchierata. Viaggi del genere cosa insegnano? E’ maggiore l’osservazione o l’introspezione?

R. Entrambe. Sono legate. Attraverso la conoscenza degli altri, impari molto più di Te. Scopri “forze” che non pensavi di possedere. Questi viaggi, tra l’altro, mi hanno dato la certezza di voler costruire un capolavoro di… vita. Odio la normalità. Contro tutti e contro tutto. Anche morire ma… sul campo, sulle Ande a 5200 metri ad esempio… fa meno paura. Sarebbe, come dire, una bella morte!

D. Nel maggio del 2009, guidi il Tour della legalità… un percorso di circa 2500 chilometri attraverso la Sicilia della mafia e conclusosi a Capaci. Esperienza rivissuta, poi, nel 2010 per ricordare i giornalisti uccisi dalle mafie di tutto il mondo.

R. Sì, anche quelli sono stati viaggi pericolosi, non un giro turistico. Abbiamo mostrato i nostri volti urlando la nostra rabbia, parlando con la gente “strozzata” dalla mafia. Un modo per sensibilizzare le coscienze perchè, secondo me, prima che fenomeno delinquenziale essa è un problema culturale. Difficile da sradicare. Anche solo per paura.

D. Mario… arriviamo ai nostri giorni. Il 25 gennaio partirai per la madre di tutte le imprese. Buenos Aires-Capo Horn-Buenos Aires in balia degli elementi in zone tra le più affascinanti ma ostili del pianeta.

R. Anche in questo caso, lo scopo c’è e sta maturando. Uno scopo sociale e culturale. Mi piacerebbe, per poi raccontarlo, vedere come vivono gli Italiani in Argentina, cosa ricordano del Loro Paese… del viaggio durato giorni e giorni verso la Terra promessa in stive infestate di topi… E, poi, navigando su Internet ho scoperto che, a 25 chilometri da Buenos Aires, c’è una cittadina… Quilmes… dove vive una nutrita comunità maurina dove, per l’appunto, il Santo Patrono è San Mauro come a Viagrande. Ne scaturirà, certamente, un gemellaggio tra le due cittadine. Questo è per me un punto d’orgoglio.

D. Mario, sempre in giro per il mondo, come la mettiamo con le altre Tue passioni? Con la musica… con i blog? Messi da parte?

R. Assolutamente no. Anzi. Il mio blog “ViviViagrande” sarà arricchito da resoconti particolareggiati del viaggio. La mia cultura musicale si arricchirà, certamente, delle suggestioni del tango che andrà a fare compagnia ai miei adorati Pink Floyd.

D. In conclusione, Mario. So che il Tuo motto contempla il “fare” piuttosto che il “pensare“…

R. Oh, sì! Intanto si parte a fare una cosa e poi si vede… una soluzione si trova sempre.

Il nostro incontro si conclude con un ulteriore “carogna” al mio indirizzo. Mario si asciuga gli occhi ancora umidi. Da carogna, so quello che racconterà nel libro. Una storia d’amore lunga oltre 40 anni e riconfermata, giorno per giorno, impresa dopo impresa. Il titolo? Top secret, dice Lui. “Lucia”… dico io.

P.S. Date le difficoltà, anche economiche, in cui si dibatte la free press… questa intervista che doveva essere pubblicata prima del viaggio di Mario, aspetta ancora la Sua giusta collocazione. Mi dicono che avverrà prestissimo. Mario, intanto, è partito ed è tornato. Con tutti gli obiettivi che si era prefissato… centrati. Magari, il resoconto del viaggio sarà corredo dell’intervista al momento della pubblicazione su stampa. Intanto… bentornato, Mario!

Silvia Ventimiglia

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